21 dicembre 2005

Viva il cinema horror


é da poco on line un nuovo blog tutto dedicato al cinema horror, cinemahorror.blogspot.com. Come potevamo ignorarlo? E allora ecco che prontamente appare il link per accedervi subito (a dire il vero più per iniziativa e merito di Marcello di CinemaHorror, che ci ha scovati in quest'angolino).
Come sempre per Overlook l'importante è che si parli di cinema, se poi lo si fa con degli appassionati ed esperti di un genere che, da tempo lo diciamo, è bistrattato e ingiustamente relegato alla serieB, ancora meglio. Viva l'horror!

16 dicembre 2005

Il genere horror (III): l'iconografia


Dopo aver parlato (nei precedenti articoli sul genere horror) degli elementi stilistici, cioè del Discorso, torniamo ora a parlare della Storia, che si divide in Eventi ed Esistenti. Per quel che riguarda l’iconografia, parte integrante, insieme ai personaggi, degli Esistenti, se dagli anni ’70 in poi l’horror ha tentato di camuffarsi con ambientazioni sobrie e prive di elementi riconducibili al genere per aumentare l’effetto sorpresa, nel periodo del cinema di genere è sempre stato fortemente caratterizzato dal punto di vista iconografico, cioè, per usare le parole di Schatz, si è sempre avvalso di una spazialità determinata: dall’Espressionismo tedesco ha ereditato l’ampio uso della penombra e di chiaroscuri marcati (ad esempio, uno dei film più famosi della prima fase horror Universal, The black cat di Edgar G. Ulmer, nella fotografia ricorda il famoso Nosferatu di Murnau); predilige scene notturne, magari illuminate dalla flebile luce di una candela o del lampo di un temporale. Per aumentare il senso di angoscia e smarrimento sceglie località isolate, posti sperduti, magari separati dal resto del mondo da una grande e misteriosa foresta (come ad esempio la Transilvania); in ogni caso si tratta di “universi chiusi”, in grado di trasportarci in una dimensione surreale e straniante, nella quale possiamo accettare ogni stranezza o mostruosità. Gli interni spesso e volentieri sono ambientati in castelli diroccati, ville antiche o cattedrali spettrali, così da sottolineare la diretta discendenza dal romanzo gotico. I personaggi, come ogni altro elemento iconografico, sono subito riconoscibili dallo spettatore; la distribuzione dei ruoli è chiara e sistematica: subito siamo in grado di distinguere tra i buoni e i cattivi; successivamente, capiremo grazie a pochi particolari le diverse funzioni specifiche all’interno dei due gruppi (leader, braccio destro, lacchè, fifone, temerario, etc.).*
(segue...)
*tratto da Alvise Barbaro, Frankenstein: dall'horror alla parodia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, 2004

28 novembre 2005

Come due pattinatori sul ghiaccio (Casomai, 2002)


Due giovani professionisti, Tommaso e Stefania, si conoscono, si innamorano e decidono di sposarsi. Mi sembra di non avere mai smesso di vedere “L’ultimo bacio” di Gabriele Muccino; e questo è il secondo tempo. E allora ancora due ore di crisi esistenziali dei soliti trentenni che non riescono ad assumersi le proprie responsabilità. Ma questo è “Casomai” di Alessandro D’Alatri; e il regista di “Americano rosso” e “Senza pelle” riesce a dare un taglio originale ad un tema ormai stra-abusato. Il film risulta brillante e ironico, mai noioso, anche grazie al contributo di una Stefania Rocca (“Nirvana”, “Viol@”) in continua crescita dal punto di vista professionale, sempre in grado di stupire, e di un inedito Fabio Volo (ex iena), che anche grazie alla sua inesperienza rende il personaggio di Tommaso con gran naturalezza, requisito essenziale per una storia che ha la pretesa di rappresentare la nostra quotidianità. Il fragile soggetto delle insicurezze generazionali si arricchisce di problematiche più concrete, che ognuno oggi si trova a dover affrontare, e non lascia che un tradimento monopolizzi l’intera pellicola. La città di Milano si fa icona di una società sempre più giovane e sempre più in movimento, alla ricerca dell’affermazione professionale e sociale, irrequieta e sempre meno disposta a fermarsi in un porto sicuro. Questi uomini del duemila rendono la parola “casomai” simbolo della possibilità di mutare ogni cosa, e due pattinatori sul ghiaccio diventano la metafora perfetta di una nuova precarietà. Ecco il ritratto di quello che siamo, la storia da raccontare, dove tutti siamo colpevoli. Ma una volta sicuri di quello che il regista ha voluto comunicarci, e ormai rassegnati ad un finale già visto, ecco che D’Alatri con grande abilità rovescia la situazione e ci dimostra come, in un presente in cui è diventato così importante essere accettati da tutti, siano ancora importanti l’individuo e il suo libero arbitrio; e ci regala un finale aperto, senza la pretesa di conoscere la cura a tutti i nostri mali, ma con l’augurio che ognuno possa essere padrone delle proprie scelte. Ad un cast giovane unisce un uso innovativo della macchina da presa, inusuale per un film di questo genere, e una colonna sonora (scritta e cantata dalla friulana Elisa) che ben interpreta il proposito di freschezza della pellicola nel suo complesso.

17 novembre 2005

Il genere horror (II): il linguaggio.


Nel suo saggio Storia e Discorso, Seymour Chatman divide ogni forma narrativa in Storia (il materiale oggetto della narrazione) e Discorso ( la forma narrativa attraverso cui si sceglie di comunicare). Rimandando a più avanti le riflessioni sulla Storia, vorrei soffermarmi brevemente su quegli aspetti cinematografici più tecnici, che caratterizzano lo stile ed il linguaggio del genere horror, quegli elementi, cioè, propri del Discorso.
Nel linguaggio cinematografico l’uso della macchina da presa ed il montaggio delineano la grammatica e la sintassi dello stile di un genere (nel nostro caso l’horror), come fanno in letteratura l’uso delle parole e la costruzione dei periodi. Il genere horror è uno di quelli più aperti alle sperimentazioni e innovazioni, e quindi, come dice anche Canova, sarà impossibile tracciare delle regole fisse e rigide; ci limiteremo a mettere in evidenza gli elementi più ricorrenti.
Iniziamo con un insistente uso della mdp in movimento: il movimento e l’instabilità dell’inquadratura generano smarrimento e angoscia nello spettatore, che non ha più una visione d’insieme chiara e precisa; si pensi al piccolo Danny che gira in treciclo per i corridoi del gigantesco Overlook Hotel in Shining: lo smarrimento cresce ad ogni pedalata, ed il pubblico si chiede sempre più insistentemente chi ci sarà ad aspettare il povero Danny dietro il prossimo angolo.
Un caso particolarmente angosciante di movimento di macchina, che ricorre spesso nel genere horror, è la soggettiva dell’assassino che segue la sua vittima: movimenti sinuosi della mdp (spesso ottenuti con una steadicam) ci segnalano subito che il nostro punto di vista è quello di una persona; poi sarà la situazione ad avvertirci che si tratta dell’assassino o del mostro; ad esempio, potremmo vedere il personaggio positivo che si guarda intorno come se fosse seguito da qualcuno, e la mdp che rimane ad una certa distanza, mostrando di nascondersi dietro ad alcuni oggetti. Questa particolare ripresa genera nel pubblico una forte suspance, ingrediente essenziale per il cinema horror; un buon esempio è il caso limite de L’uomo senza ombra (Hollow Man, di Paul Verhoeven, 2000), in cui un Kevin Bacon invisibile segue senza essere visto le sue vittime: la mdp in movimento si avvicina molto agli attori, che fingono di non accorgersi di essere seguiti, aumentando così l’inquietudine dello spettatore.
I registi di film horror alternano, attraverso il montaggio, scene come questa, che generano suspance, a forti colpi si scena, che colpiscono l’attenzione dello spettatore attraverso la sorpresa, come, ad esempio, la classica scena dell’assassino che colpisce all’improvviso, sbucando dall’ombra, in un momento in cui la tensione è azzerata dal contesto non minaccioso. Si tratta di scelte stilistiche che mantengono costante l’attenzione, ma anche l’angoscia del pubblico.
È doverosa a questo punto una distinzione tra i termini “suspance” e “sorpresa”: parliamo di suspance quando il regista sceglie di dare allo spettatore degli indizi che lo rendano partecipe, o quantomeno gli permettano di immaginare, quanto sta per accadere alla vittima, che, invece, è all’oscuro di tutto; la sorpresa, all’opposto, scuote di colpo l’attenzione del pubblico, insieme a quella dei personaggi, che non si aspettano ciò che sta per accadere.
Tutto questo, dicevamo, attraverso il montaggio: un montaggio invasivo e serrato è spesso un elemento centrale di un film horror; si alternano velocemente primi piani a campi lunghissimi, inquadrature anomale e inquietanti (di derivazione espressionista) a fuori campo altrettanto minacciosi, che mantengono il ritmo incalzante. * (segue...)
*tratto da Alvise Barbaro, Frankenstein: dall'horror alla parodia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, 2004.

08 novembre 2005

Il genere horror (I): riqualifichiamo un genere ingiustamente relegato in serie B


Innanzi tutto bisogna sfatare la diffusa convinzione che l’horror sia un genere di serie B. è facile osservare come ognuno di noi abbia il bisogno inconscio di confrontarsi con le proprie paure e come la rappresentazione di esse sia una consuetudine nel campo artistico. L’elemento inquietante è sempre stato presente nella storia del cinema sin dai suoi esordi e molti tra i più grandi maestri della settima arte hanno voluto cimentarvisi. È un cinema in continuo mutamento, sempre aperto alla sperimentazione e all’innovazione, in grado di confrontarsi ogni volta con strumenti diversi e attraverso diversi linguaggi; si avvale di uno stile raffinato, di numerosi simbolismi e, come ci spiega Gianni Canova, <<[…] non c’è altro genere nella storia del cinema così bisognoso, per essere colto appieno, di una grande conoscenza sentimentale interiorizzata, metabolizzata dallo spettatore.>>. Inoltre l’horror chiede uno sforzo maggiore al cineasta, in quanto non deve solo mostrare allo spettatore, ma deve provocare in lui una reazione forte, rendendo più stretta l’interazione col film; citando ancora Canova, possiamo definirlo il “cinema dello shock visivo”, distinto da tutti gli altri generi proprio per questa ricerca della reazione dello spettatore (che forse si può riconoscere anche nel cinema comico e in quello porno), dove l’occhio assume una valenza ancora più importante, in quanto veicolo di questo shock. La provocazione, l’oltraggio visivo, sono sempre sottolineati dal genere attraverso la ricorrente tematica dell’occhio, da Un chien andalou (id., 1929, Luis Bunuel) in poi, passando da L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960, Michael Powell). Saper modellare la materia orrorifica nel cinema significa avere una profonda conoscenza e padronanza del cinema stesso; per questo, come dicevamo, i più grandi maestri hanno voluto cimentarvisi: tra gli ultimi, Francio Ford Coppola e Kenneth Branagh, dopo cento anni di cinema, hanno resuscitato due classici del genere: Dracula e Frankenstein.* (segue...)
*tratto da: Alvise Barbaro, Frankenstein: dall'horror alla parodia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, 2004.

30 ottobre 2005

Il treno della vergogna (Amen, 2002)


Con “Amen” il regista greco di adozione francese Costa-Gavras (Mad city) torna, dopo “Z- L’orgia del potere” e “Missing”, ancora una volta all’argomento storico-politico: Seconda Guerra Mondiale; un ufficiale delle SS pentito (Ulrich Tukur) e un giovane prete italiano (Mathieu Kassovitz) credono di poter fermare il folle eccidio di ebrei informando il Vaticano e, da qui, tutti i fedeli; ma si troveranno di fronte il muro di gomma di realpolitik e ciniche diplomazie di burocrati e uomini di governo. Il tema polemico sull’ambigua posizione della Chiesa e sulle sue responsabilità, tratto dal dramma teatrale “Il vicario” di Rolf Hochuth, acquista qui un respiro più ampio, coinvolgendo uomini politici e ambasciatori di diversi governi e puntando così il dito contro chiunque abbia preferito per convenienza o per timore fingere che nulla stesse accadendo. E un treno merci che ad intervalli costanti passa laconico e inesorabile interrompendo lo svolgersi dell’azione sembra chiamare in causa lo stesso spettatore: a tutti è chiaro cosa trasportino quei vagoni, non servono parole per spiegare dove siano diretti e per quale motivo. Con una sapiente scelta registica Costa-Gavras rifiuta di concretizzare in immagini anche troppo scontate la violenza e l’orrore dello sterminio e, in sintonia con l’idea di fondo di tutto il film (molti accettarono la deportazione degli ebrei nascondendosi dietro la comoda scusa di non sapere cosa accadesse nei campi di concentramento), lascia all’immaginazione quello che la cinepresa non sarebbe in grado di rendere in tutta la sua crudezza. Come in una “Berlin story” di Christopher Isherwood, la ferocia del fronte è qui solo sfiorata e narrata da chi è rimasto a casa, mentre l’azione si svolge tra le lussuose stanze di ambasciate e Vaticano, dove la guerra si combatte a tavolino; la miseria e la desolazione sono solo istantanee fuori dai finestrini delle macchine che si spostano da un palazzo all’altro. Incendi e bombardamenti invadono la scena verso la fine, accelerando in modo quasi nervoso l’azione e riducendo al minimo il dialogo, a dimostrazione del fatto che la pazzia della distruzione ha il sopravvento su tutto, anche sul potere. Si riconferma il talento di un versatile Mathieu Kassovitz (“Assassins”, “Il favoloso mondo di Amélie”) in una pellicola d’autore dai toni polemici e dall’argomento delicato ed impegnativo. Fa riflettere; ogni commento al termine del film risulterebbe superfluo e retorico.

22 ottobre 2005

Al Liga manca Freccia (Dazeroadieci, 2002)


“Da zero a dieci che voto daresti alla tua vita?”. Questa è la domanda che si pongono i quattro protagonisti del secondo film di Luciano Ligabue quando decidono di tornare a Rimini per concludere un week-end interrotto vent’anni prima. E dalla provinciale Correggio, dove trent’anni prima si era svolto il dramma di Freccia, alla cosmopolita riviera romagnola di fine Luglio il passo è breve: un’oretta di strada, come ci racconta Giove (Stefano Pesce); quei pochi kilometri i nostri trentacinquenni insoddisfatti e affetti da una sedicente sindrome di Peter Pan li percorrono con una gran nostalgia dei mitici anni Settanta, della musica di allora, di quando si era giovani e incazzati per qualcosa, con una gran nostalgia di “Radiofreccia”. E il ricordo di Stefano Accorsi torna anche quando Giove accenna al fratello morto anni prima, quello che era un mito in paese, quasi ad indicare una continuità spirituale tra i due film (da notare anche la somiglianza tra i due protagonisti). Ma il monologo di Stefano Pesce è solo un pallido ricordo delle rovesciate di Bonimba e dei riff di Keith Richards di cui abbiamo tanto sentito parlare; forse perché questa è una commedia sui rimpianti di chi era teenager negli anni Settanta, lontana dai toni drammatici delle lotte per le radio libere, delle contestazioni. I nostri quattro vogliono solo rivivere un weekend goliardico mai concluso. Per questo sembrano stonare le tavole rotonde su ideologie, sulle malattie, la politica e la discriminazione che il regista tenta di affrontare tra una festa in spiaggia e l’altra. Per la colonna sonora vale lo stesso discorso: la musica della pellicola non è il ritorno dei seventies, è il loro ricordo sbiadito; Jim Morrison compare solo nei posters della casa di Baygon (Stefano Venturi), il più nostalgico dei protagonisti; niente alternative o hard rock, niente Led Zeppelin o Pink Floyd, solo Village people e Disco Inferno, che ancora oggi sono tra i revival più quotati nelle nottate estive; d’altra parte siamo a Rimini, patria delle discoteche oggi come ieri. La musica rock diventa centrale quando il bluesman romagnolo con gli stivali (sembra di parlare del Liga!) improvvisa un musical stile anni Sessanta, con tanto di coreografie e comparse ballerine; le parole sono del cantante-regista, la voce, invece, è quella di Pesce. Mentre il brano di Ligabue “Questa è la mia vita” accompagna i titoli di coda.

15 ottobre 2005

La favola delle piccole manie (Il favoloso mondo di Amèlie, 2001)


In una Parigi senza tempo colorata come un quadro di Gauguin vive Amélie Poulain (Audrey Tautou), una ragazza solare ma timida che ha fatto dell’altruismo la sua missione. L’atmosfera che si respira è quella del Montmartre del passato, quello degli artisti, bohémien e bizzarro, dove l’eccentricità è la regola. Questa è la favola del mondo di Amélie, dove tutto, dalla voce di un narratore che non vedremo mai alla recitazione e all’uso sapiente della telecamera, riporta a quel surrealismo dal sapore un po’ retrò di una vecchia fiaba per bambini. Ma come il racconto di Carrol, la storia di questa Alice smaliziata in un paese delle meraviglie moderno nasconde dietro la sua leggerezza nevrosi, paure e incertezze di una società che non vuole smettere di sognare; paladina dei più deboli come Zorro, Amélie si fa custode di questa dimensione onirica realizzando i desideri di chi incrocia la sua strada e punendo chi, come il sig. Collignon, irrompe con il suo brutale ed arrogante realismo in questo spazio, dove unica coordinata temporale è la morte della principessa Diana (Agosto 1997). Come la ragazza col bicchiere di un quadro di Renoir, che il suo amico Raymond, insoddisfatto, ridipinge ogni anno, Amélie non trova il suo posto all’interno della cornice: distratta dalla vita degli altri, non riesce ad ottenere quello che vuole per sé stessa, bloccata soltanto dal pudore che le impedisce di confessarsi a Nino (Mathieu Kassovitz, già in “Assassins” e “Il 5° elemento”). E’, infatti, una commedia delle piccole cose (un tempo si sarebbe detto “da salotto”); le storie di ognuno nascono dalla timidezza piuttosto che dall’ipocondria, dai ricordi del passato o da una raccolta di fototessere; e un divertente minimalismo caratterizza la narrazione: tutti i personaggi sono delineati sin da principio dalle loro stravaganze e fobie, da ciò che gli piace o che non sopportano; è questo micromondo che il regista vuole fotografare, ciò a cui normalmente non si da peso o di cui non ci si accorge perché minuscolo di fronte alle grandi tematiche che si affrontano oggigiorno. Jean Pierre Jenet, accantonando il cinismo di “Delicatessen”, ha creato una favola dei buoni sentimenti, in cui il buonismo e solo un paravento che cela un’intelligente ironia sulle manie delle persone. Ironia ben espressa dalla Tautou: a suo agio nei panni della fatina buona, è dotata di una semplicità disarmante, alla quale oppone uno sguardo tutt’altro che ingenuo. Un film che mette di buon umore.

13 ottobre 2005

Iniziare a fare cinema


Martedì scorso si è concluso il Workshop di Cinema Digitale organizzato dall'associazione culturale Cinemaindipendente.it: undici incontri durante i quali professionisti del mestiere ci insegnano che fare un film, in formato digitale, non è impossibile.
Dalla sceneggiatura alla regia, fino al montaggio, in modo da avere tutte le conoscenze per iniziare.
Le lezioni sono state tenute, tra gli altri, dal regista Mirko Locatelli (Come Prima, 2004) e dal direttore della fotografia Mladen Matula (Fame Chimica, 2003; Come Prima), che hanno portato come esempio concreto le loro esperienze personali. Inoltre i ragazzi di Officina Film (casa di produzione indipendente che ha collaborato all'organizzazione del corso), memori delle loro esperienze, hanno raccontato tutti i trucchi per semplificare e ridurre ai minimi costi una produzione cinematografica.
Sicuramente è un percorso utile ha chi vuole iniziare il lungo percorso per fare cinema, oltre che a vederlo. I corsi sono serali, quindi frequentabili anche da chi lavora, e costano relativamente poco. In più, i ragazzi sono simpatici e molto disponibili.
Cinemaindipendente.it e Officina Film organizzano anche altri corsi (adesso sono aperte le iscrizioni per quello di scrittura creativa e per quello di montaggio Avid), nonchè iniziative culturali parallele, come gli incontri mensili di "Nella stazione di La Ciotat". E sicuramente ripeteranno anche il Workshop di cinema digitale. Per tutte le informazioni a riguardo visitate il loro sito (vedi il link nella colonna di destra).

08 ottobre 2005

Stanley, I love you

Un blog con un nome simile non poteva iniziare che con una dichiarazione d’amore, più che con un manifesto. Un omaggio all’uomo che più di ogni altro ha segnato il mio approccio alla settima arte, uno dei più grandi registi della storia del cinema e, a mio giudizio, l’unico capace di racchiudere nella sua opera, con la continua ricerca della perfezione, la summa dell’arte cinematografica: Stanley Kubrick (1928-1999).

Da sempre il cinema soffre di una separazione netta e forzata tra cinema d’autore o artistico e cinema basso o popolare. Quello che piace ai critici e quello che piace al pubblico, per intenderci. Una diatriba vecchia di cento anni, ma insolubile.
Il cinema nasce come arte popolare, quindi è comprensibile che voglia essere apprezzata dalle grandi masse; ma proprio perché forma d’arte, è giusto anche che persegua intenti estetici che tendono ai canoni artistici di bellezza, sbrigliandosi dalle logiche commerciali che ne fanno un prodotto in serie. Un film deve essere il frutto di un genio creativo, unico, e lo si deve vedere sullo schermo. Ma per essere un’opera "totale", anche la narrazione deve suscitare interesse, in un impiegato di banca come in un critico d’arte. Alla forma va aggiunto il contenuto, per dirla come un critico letterario. Per questo non amo Antonioni, ma mi diverto con Verdone e preferisco Truffaut a Godard.
Kubrick superò questa divergenza, creando film di altissimo livello artistico e di forte impatto narrativo. E, cosa importantissima, lo fece senza scendere a compromessi, senza piegare il suo genio alle esigenze di produttori pressanti e senza annoiare il pubblico con inquadrature “inutili ma belle”.
Tutti i suoi film poggiano i piedi su un perfetto equilibrio tra gusto estetico e contenuto narrativo, che diventano, com’è giusto che sia, elementi complementari di un’opera d’arte, mettendo d’accordo critici e grandi masse.
Sono opere con diverse chiavi di lettura, godibili a diversi livelli, come pura fiction o come opere con un profondo studio psicologico. Il lungo lavoro e le riflessioni che stanno alle spalle di questi capolavori sono avvertibili ad ogni spettatore, all’occhio critico attento, come a chi si è preso due ore per andare al cinema e svagarsi.
Il lavoro di messa in scena è impeccabile: le atmosfere che il regista sa creare sono terrificanti da quanto coinvolgono lo spettatore: Kubrick manipola musiche, rumori e silenzi con grande maestria (ho visto Shining tantissime volte, e mi viene la pelle d’oca ogni volta che lo rivedo). Ha un perfetto senso dei tempi d’azione e l’occhio esperto di un fotografo, prima che di un regista. L’attenzione all’inquadratura lo rende simile ad un pittore con il pallino della matematica.
Ma allo stesso tempo le storie che racconta (e che lui stesso adatta per il grande schermo) sono avvincenti, incollano alla poltrona e fanno vivere emozioni, che rendono partecipe tutti, senza distinzioni.
Ecco perché Kubrick. Ed ecco perché la citazione da Shining, il mio preferito: un horror, solitamente considerato un genere basso, di puro svago, che nasconde una profondità psicologica e una maestria di messa in scena propri solo di un grande artista.
Sicuramente non vanno dimenticati altri grandi maestri che hanno contribuito all'evoluzione del cinema, forse anche in maniera più incisiva, come Griffith, Eisenstein, Welles, Hitchcock e altri. Ma solo Kubrick, tra i grandi, ha saputo sposare l’elemento artistico a quello popolare a così alti livelli, generando un’opera d’arte nella sua totalità.
Certo, autori che piacciono al grande pubblico ce ne sono tanti: Scorsese, Coppola, De Palma, Polanski (solo per citare alcuni dei miei preferiti), ma Kubrick era ed è super partes, un maestro riconosciuto.
Martin Scorsese diceva che ogni anno che passa senza che Stanley Kubrick faccia un film, è una grossa perdita per tutto il cinema. Nulla di più vero.