02 aprile 2009

corto d'autore per alimentare la fiducia


In questi giorni iniziano a vedersi in tv (e in futuro al cinema) le prime immagini dei cortometraggi realizzati da Ermanno Olmi, Gabriele Salvatores e Paolo Sorrentino per il progetto PerFiducia, promosso da IntesaSanpaolo. Sposando l'iniziativa, riportiamo di seguito il comunicato stampa, condividendo le idee e i principi ispiratori del progetto.

Il cinema può infondere un po’ di fiducia in questi momenti di difficoltà?
Ermanno Olmi ci ha pensato e deve aver risposto di sì. E lo stesso hanno fatto Gabriele Salvatores e Paolo Sorrentino perché insieme firmano una serie di cortometraggi d’autore per raccontare il valore della fiducia come forza positiva e vitale del Paese.
Da questi brevi film emerge un’Italia che non smette di credere nel proprio futuro. Un’Italia che vive questo momento di crisi con senso del dovere, capacità di sacrificio, e anche con solidarietà e comprensione per gli altri.
I registi, che rappresentano tre generazioni di cinema italiano di qualità, hanno creato storie molto diverse tra loro.
Olmi con Il Premio ha voluto filmare la storia vera di due studentesse che hanno vinto un premio per un progetto utile e innovativo. La fiducia in se stesse le aiuterà nella finzione e nella vita a credere al loro futuro.
Salvatores nel suo Stella ha creato una storia a sorpresa, ambientata negli anni Ottanta e ai giorni nostri, in cui la fiducia nasce tra due donne grazie alla solidarietà e alla comprensione. Sorrentino ha filmato La partita lenta, un incontro di rugby come metafora popolare e sportiva impiegata per raccontare la fiducia che, pur in una situazione di difficoltà, consente di avanzare verso una meta, neanche troppo distante.
I tre film, della durata di circa dieci minuti ciascuno, saranno proiettati al cinema e visibili su www.perfiducia.com. Saranno inoltre trasmessi in TV in edizioni da 3 minuti e da 90 secondi.

11 gennaio 2009

The dreamers


Regia: Bernardo Bertolucci.
Con: Michael Pitt, Louis Garrel, Eva Green, Robin Renucci, Anna Chancellor,
Florian Cadiou.
Produzione: Jeremy Thomas.
Distribuzione: Medusa.
Anno: 2003.
Durata: 130’.

Trent’anni dopo Ultimo tango a Parigi Bernardo Bertolucci torna a chiudersi con
la macchina da presa in un appartamento della capitale francese. All’interno
questa volta non ci mette una coppia ma un trio, unito dall’amore per il cinema
e dalla ricerca della libertà sessuale. Fuori dal rifugio invece si scatena la
contestazione sessantottina: prima davanti ai cancelli sbarrati della
Cinematheque Francaise e poi, sempre più ubiqua e dilagante, lungo i boulevard
dove studenti e operai affrontano la polizia a colpi di slogan e bottiglie
molotov. Saranno proprio i disordini di quei giorni infine, con un sasso che
molto provvidenzialmente si infrangerà contro la loro finestra, a liberare il
trio da una deriva privata, esclusiva ed assorbente quanto un sogno che diventa
ossessione.
Prima di qualunque considerazione specifica consentiteci una premessa generale.
The dreamers ci sembra la dimostrazione inconfutabile dell’immutata attualità
delle teorie sul “cinema d’autore” formulate ai tempi della Nouvelle Vague:
indipendentemente dalla materia trattata, sostenevano Truffaut e compagni, un
film è sempre e comunque figlio di un solo padre, il regista, che attraverso la
messa in scena trasmette all’opera il proprio patrimonio genetico. Il discorso
vale ovviamente per i soli grandi registi e spetta ai microscopi della critica
poi individuare i cromosomi da cui si sviluppa il loro lavoro. Riconosciuto a
Bertolucci lo status elitario di autore e accettando il rischio di suonare come
la voce stonata fuori dal coro, proviamo a spiegare il nostro pensiero. A
dispetto dei presupposti narrativi The dreamers rimane un film algido ed
estremo. A volte ostentatamente estremo. Lo sguardo cerebrale del regista riesce
infatti a raffreddare una materia magmatica in cui gioventù, amore, passione
erotica, cinefila e politica si cristallizzano in una statua certamente sinuosa
ed elegante, ma scolpita nel ghiaccio. Citazionista per vocazione e sovente per
sfoggio, Bertolucci si concede qualsiasi licenza. Satura il film di riferimenti
musicali e cinematografici “alti” e per farlo ricorre all’escamotage più banale
montando in parallelo le sequenze originali a quelle riattualizzate, con molta
saccenza e scarsa fantasia, dai suoi pallidi sognatori. Il risultato è un
imponente affresco barocco che come una modella troppo sicura del proprio
fascino si offre ammiccante agli scatti del fotografo ma che lo spettatore in
definitiva non sa in che prospettiva guardare. La vera lacuna di The dreamers
però sta a nostro avviso nella bassa temperatura emotiva del racconto
cinematografico che congela la comunicatività umana dei personaggi e che
tuttavia è cifra stilistica precipua della poetica del regista. Un esempio:
quando Bertolucci ruba fotogrammi a Chaplin, lo spettatore finisce per sentirsi
come uno scolaro davanti a un documentario. Se invece a fare un’operazione
simile è il Tornatore di Nuovo Cinema Paradiso lo spettatore è percorso da un
brivido. Questo perché la prima citazione tende all’erudizione, al didascalismo;
la seconda all’emozione.
Quanto al senso generale del film, l’impressione (confermata in certa misura
anche da quel pugno un po’ pateticamente alzato a beneficio dei fotografi
veneziani) è che Bertolucci intendesse operare uno scarto narrativo tra sfondo e
primo piano, privilegiando il tema politico a quello sentimentale o
cinematografico. Il triangolo amoroso, è vero, è il nucleo centrale della
pellicola ma i rapporti che legano Isabelle, Theo e Matthew appaiono a tratti
talmente artefatti e consacrati al lirismo dei dialoghi o delle situazioni da
rimanere a metà tra la forza della vita vissuta e l’incanto della vita sognata.
Tutt’altro che trascurabile poi l’ipocrisia con cui il regista ha cassato
l’attrazione omosessuale che evidentemente lega Theo a Matthew: per tenersi
buono il pubblico americano insomma l’uomo-col-pugno-alzato, oltre a lasciar
tagliuzzare al censore le scene di sesso, ha fatto anche un’altra piccola ma
significativa marcia indietro.
Ridotta la passione cinefila a un quiz nozionista e la passione amorosa a una
figura geometrica piana, Bertolucci infine resta in superficie anche nel
discorso politico. Stalin, Mao e Godard come icone benevole e illuminanti, padri
e madri come stolidi custodi della borghesia, poliziotti come cani da guardia,
studentelli implumi come infallibili depositari del bello e del vero. …Ma erano
tutti così ottusi e spocchiosi i giovani di allora? E la libertà, la libertà
dell’individuo, la libertà di denunciare i crimini e le ingiurie della dittatura
del proletariato, la libertà di non idolatrare Godard, la libertà dei veramente
liberi insomma non interessava a nessuno?
Se questo è l’oggetto sublime delle sue nostalgie, caro Maestro, allora si
rincuori, che di sognatori di tal fatta, purtroppo, è ancora pieno il mondo.

Recensione di Alessandro Montanari

19 luglio 2008

MILLION DOLLAR BABY


Regia: Clint Eastwood.
Con: Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel.
Produzione: Malpaso Productions, Albert S. Ruddy Productions, Lakeshore Entertainment.
Distribuzione: 01 Distribution.
Anno: 2004.
Durata: 137’.

Tradito dal suo pugile più promettente, sottrattogli alla soglia della definitiva consacrazione da un manager losco e profittatore, il vecchio Frankie sta forse per gettare la spugna quando l’ostinata determinazione di una sconosciuta, che da qualche tempo ha preso a seguirlo come un cagnolino in cerca di padrone, lo convince a intraprendere una nuova scommessa sportiva: allenare una donna, già 31enne e per giunta a digiuno delle più elementari nozioni tecniche, per portarla fino alla conquista del titolo mondiale. L’impresa sembra impossibile ma sul ring Maggie dà prova di qualità eccezionali: tenacia, umiltà, coraggio, spirito di sacrificio e intelligenza. Meno cauto che in passato e animato dal desiderio di dare ai sacrifici dell’allieva l’opportunità di una meritata ricompensa, Frankie le organizza l’incontro della vita. A un passo dal trionfo però una grave scorrettezza dell’avversaria mette Maggie knock-out, inchiodandola per sempre a un letto d’ospedale. Paralizzata dalla testa in giù e abbandonata dalla stessa famiglia che con le sue vittorie aveva tentato di risollevare, alla ragazza non resta che il ruvido affetto dell’allenatore. E proprio per Maggie, Frankie compirà il più paterno, penoso e misericordioso degli atti d’amore.
Se, come sosteneva Truffaut, i film sono treni che attraversano la notte, Million Dollar Baby è allora un convoglio solido ma non troppo moderno che porta lo spettatore a destinazione puntuale e senza scossoni. Merito della guida esperta del capotreno che, salito tante e tante volte sulla vecchia locomotiva dei Lumiere, dell’ingranaggio cinematografico è arrivato a conoscere ogni minuscolo componente. Million Dollar Baby dunque funziona per le stesse banali ragioni che da sempre fanno di un film un buon film: perchè racconta una bella storia, perchè la racconta bene, perché gli interpreti vivono nei personaggi. E sono proprio gli attori, a nostro giudizio, a reggere le sorti della pellicola valorizzando anche oltre i limiti della sceneggiatura le suggestioni metafisiche di una strana parabola teologica che ricostruisce l’enigma della trinità che tanto tormenta Frankie intorno all’incrinato distacco di un allenatore che torna ad essere Padre, alla devozione incrollabile di una Figlia che va incontro al proprio destino sacrificale e alla sobria saggezza di un ex pugile mezzo cieco che come lo Spirito Santo tutto vede e tutto comprende. Eastwood, Freeman e la Swank sono tre talenti purissimi che filtrano l’ispirazione attraverso metodi assai diversi: lavorando sulla connotazione del silenzio il primo, sulle suggestioni della parola il secondo e sulla fisicità istintiva e animalesca la terza. L’incontro e la fusione di approcci tanto eterogenei fa di Million Dollar Baby un memorabile saggio di arte drammatica. Quanto al lavoro di messa in scena invece Eastwood continua a perseguire quell’idea essenziale di cinema maturata nel corso di una carriera straordinariamente lunga, fortunata e costellata di grandi incontri artistici. L’impressione però è che da Mystic River in poi l’attitudine risoluta, piana e lineare del regista venga erroneamente interpretata dalla critica come un’indefinita forma di classicismo che il cinema non ha mai effettivamente vissuto, visto e considerato che i grandi pionieri (solo a posteriori i classici) hanno sempre pensato a elaborare forme espressive innovative e personali più che a replicare o consolidare modelli già acquisiti. L’indubbia confidenza del regista col mezzo non dovrebbe quindi nascondere il rischio cui un tale cinema è soggetto: quello di lasciare scadere la semplicità in semplificazione e l’essenzialità stilistica in povertà lessicale. Alludiamo alla disinvoltura di certe svolte narrative che come già in Mystic River liquidano il tema emotivamente più forte del film (qui l’eutanasia, in Mystic River l’abuso sessuale) finendo per trascurarne innumerevoli risvolti. Ulteriori dubbi suscita poi la stilizzazione manichea dei personaggi che mentre assegna a Maggie i connotati sublimi dell’angelo o dell’agnello sacrificale, vernicia di un’indifferenza odiosa e grottesca la sua deforme famiglia e intride di una malvagità altrettanto irredimibile la sua terribile avversaria. Troppo oscuro e sostanzialmente irrisolto pare infine anche il tormentoso passato di Frankie di cui è avara rivelatrice persino l’onnisciente voce-guida di Eddie che, considerata l’umile provenienza, stupisce sia per proprietà che per profondità di linguaggio. Potere dello Spirito Santo che tutto pervade e in tutto (e tutti) si manifesta.

recensione di Alessandro Montanari

26 febbraio 2008

LA STANZA DEL FIGLIO


Regia: Nanni Moretti.
Con: Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio
Orlando.
Distribuzione: Sacher Distribuzione.
Produzione: Sacher Film Srl, BAC Films, Canal+.
Anno: 2000.
Durata: 99’.

La stanza del figlio è il film che non volete vedere. La paura del dolore, di un
dolore così grande ed incomprensibile come la perdita di un figlio, allontana
quasi a-priori lo spettatore. Eppure c’è qualcosa di profondamente terapeutico
in questo film tragico e sommesso che sembra la pagina nascosta di un diario
privatissimo e questo qualcosa è inevitabilmente legato al tortuoso tragitto che
gli psicologi definiscono “elaborazione del lutto”. L’unità della famiglia, la
dolce complicità tra moglie e marito e tra genitori e figli d’improvviso vengono
come immobilizzate dal gelido arrivo della morte che trasforma il focolare
domestico in una sorta di presepe ghiacciato. Davanti alla morte si è
desolatamente soli sembra dire Moretti, la sofferenza interiore non riconosce
simili al di fuori di se stessa. Qualcuno ha parlato de La stanza del figlio
come di un’opera sul dolore che divide e il giudizio ci sembra senz’altro
condivisibile. E’ come se ognuno perdesse qualcosa di diverso, come se ognuno,
più od oltre che perdere il figlio o fratello Andrea, perdesse l’immagine, la
propria personale raffigurazione di Andrea. Il ragionamento, forse complesso ma plausibile, trova conferma in un piccolo excursus giallo che precede la
disgrazia. Padre, madre e sorella tentano di capire se sia davvero stato Andrea
il responsabile del furto di un fossile (ancora l’idea dell’immobilità che
ritorna) avvenuto a scuola. Nel susseguirsi di ipotesi su questo fatto
apparentemente non utile ai fini del racconto ciascuno ragiona in base alla
propria idea del ragazzo ed è esattamente di quell’Andrea-riflesso da se stessi
che ognuno si sente orfano. La stanza del figlio, tuttavia, si guarda e si
riceve con il cuore e con un’emozione sempre soffocata che poco spazio concede
alla freddezza dell’analisi psicologica. Impossibile spiegare ciò che
spiegazione non ha. Ed è proprio il padre-psicologo interpretato da Moretti,
infatti, il primo ad alzare mestamente bandiera bianca. Il tornare
ossessivamente sulle circostanze infinitesime che avrebbero potuto evitare la
morte del figlio agisce sulla sua mente come un cancro silenzioso. Il suo dolore
è talmente assorbente ed esclusivo da soffocare quasi la capacità di ricordare,
l’unica cosa, a ben vedere, di cui la morte non riesce a privarci. A mostrare
allo psicologo l’uscita dall’oscuro labirinto sarà una lettera spedita troppo
tardi ad Andrea da una giovane dagli occhi limpidi di nome Arianna. Il filo di
Arianna conduce la famiglia dalle acque dell’Adriatico, quelle della tragedia,
al mare che unisce, e divide, Italia e Francia. Su una spiaggia deserta in cui
disordinatamente vagano madre, padre e figlia ricomincia faticosamente la vita.
Il tempo stabilirà se La stanza del figlio sia il capolavoro del Moretti-regista,
noi ci accontentiamo di credere che sia il film più importante del Moretti-uomo.

recensione di Alessandro Montanari

05 dicembre 2007

L’ODORE DEL SANGUE

Regia: Mario Martone.
Con: Michele Placido, Fanny Ardant, Giovanna Giuliani.
Produzione: Mikado, Biancafilm.
Distribuzione: Mikado.
Anno: 2003.
Durata: 98’.

Nel momento più stagnante della propria carriera di scrittore scomodo ed inviato di guerra, Carlo si rifugia nel casolare di campagna dove tutt’altro che in incognito conduce una relazione parallela con Lù, androgina e giovane amante che suole chiamare “il mio ragazzetto”. A Roma invece, in un appartamento sterilizzato dall’ordine e dalle centinaia di libri che incombono dalle pareti, rimane Silvia, l’affascinante consorte dalla quale non ha avuto figli e che ha accettato, se non proprio condiviso, l’interpretazione libertaria data dal marito al loro matrimonio. La solitudine e la sensazione invadente del progressivo scolorire della bellezza nello scivolare monotono dei giorni spingono Silvia a una deriva sessuale che trova nelle ruvide attenzioni di un giovane conosciuto per strada un’illusoria esplosione di vitalità. Annusato il coinvolgimento emotivo della moglie, Carlo per la prima volta viene assalito dal più detestato e borghese dei sentimenti, una gelosia feroce, quasi patologica, che tuttavia ha la chiaroveggenza di intuire lo sbocco fatale di un disordine sentimentale tanto spensieratamente assecondato.
Talento di estrazione e formazione squisitamente teatrali Mario Martone scende con una certa frequenza anche nell’arena cinematografica per misurarsi di preferenza con soggetti estremamente problematici (Morte di un matematico napoletano, 1992; L’amore molesto, 1995). Comprensibile dunque l’interesse per L’odore del sangue, ultimo romanzo, tra l’altro incompiuto, di Goffredo Parise, autore tra i meno leziosi e concilianti della letteratura italiana. Il testo, concepito come uno sfogo personale libero e liberatorio, presentava diversi elementi in grado di minare alle fondamenta la buona riuscita dell’adattamento cinematografico: l’implosione intimista e l’autoreferenzialità del narrare parisiano, la letterarietà dei dialoghi, la scabrosità delle situazioni e il carattere ossessivo dell’indagine di Carlo sui comportamenti sessuali della moglie col giovane amante. Martone si accosta al testo scritto con grande rispetto, deciso tuttavia a conservare l’impatto frontale che ebbe all’epoca sui lettori. L’unica licenza che il regista napoletano si concede nella faticosa opera di trasposizione sta nel ripescaggio della vicenda dall’acquario ultra-ideologizzato della Roma degli anni di piombo. In ossequio a un’abitudine teatrale Martone costruisce la regia sull’intimità dei due protagonisti, Carlo e Silvia, allargando poi lo sguardo in modo non speculare ai rispettivi amanti. Se Lù infatti viene ampiamente presentata al pubblico che la riconosce come un soggetto agente ed autonomo, il giovane e rude amante di Silvia non viene mostrato nemmeno una volta. La scelta, cinematograficamente assai felice, è dunque quella di limitarsi ad evocare il personaggio per dargli la consistenza aerea e ubiqua del fantasma che in effetti abita le ossessioni di Carlo il quale, senza accorgersene, travasa nel rivale tutta la distanza che lo separa dal ricambio ideologico e generazionale in corso. L’ottima resa delle allucinazioni di Carlo, calate come “realtà nella realtà” senza cioè alcun ricorso ai clichè lessicali della voce narrante o della fotografia difforme (sovra- o sotto-esposta), colma almeno un paio di scivoloni in cui Martone è a nostro giudizio incorso in fase di scrittura e di messa in scena. Silvia per esempio è sovente ripetitiva e le espressioni che usa per difendersi dagli attacchi del marito (Niente esclusive) o per giustificare l’attrazione bruciante per un ragazzo di cui potrebbe esser madre (Ha il culto della forza) scadono nella ridondanza che, come si sa, è somma nemica dello sceneggiatore. Martone infine abusa della citazione. Se il riferimento al deserto fisico e psicologico di Antonioni (Zabriskie Point, 1980) attiva qualche fertile suggestione, i riferimenti a La Signora della Porta Accanto (Truffaut, 1981) e, c’è parso di intuire ma vorremmo sbagliare, al recente e pessimo Irreversibile di Gaspard Noè sono sembrati nel primo caso una cortesia per l’ospite (Fanny Ardant) e nel secondo un infausto ma sapientemente mascherato attacco di pigrizia. Impostato su una prospettiva rigorosamente singolare e maschile, L’odore del sangue descrive con toni duri e impudichi la tragedia freudiana di un uomo sopraffatto dalla virilità del rivale inserendola nel più ampio contesto di una parabola senza alcuna morale sugli effetti collaterali di quella libertà indecente tanto sublimemente cantata da Renato Zero (Cercami in Amore dopo amore, Fonopoli, 1998).

Recensione di Alessandro Montanari

06 ottobre 2007

From Heaven, quando la musica incontra l'immagine


Givedì 4 ottobre è stato presentato ufficialmente presso il palazzo Granaio di Settimo Milanese il videoclip di "From Heaven", primo singolo estratto dall'album "thin Limits", brillante esordio discografico della gothic rock band "Sleep of Thetis".Il video è stato diretto dal nostro poliedrico collaboratore Alvise Barbaro ed ha riscosso un ottimo consenso di pubblico.
La presentazione è stata accompagnata da un concerto acustico della band milanese.
Per chi volesse vedere il video, lo può trovare su YouTube o sul sito www.sleepofthetis.com.

18 settembre 2007

IL RITORNO


Regia: Andrey Zvyagintsev.
Con: Vladimir Garin, Ivan Dobronravov, Kostantin Lavronenko, Natlaya Vdovina, Galina Petrova.
Produzione: Ren Film.
Distribuzione: Lucky Red.
Anno: 2003.
Durata: 105’.

Cresciuti con la madre e la nonna, Andrej e Ivan non vedono il padre da 12 anni. Di lui in casa è proibito parlare e persino la sua immagine è ridotta allo stazzonato ricordo di una vecchia fotografia familiare custodita dai due bambini come un tesoro segreto. Un giorno però il padre ricompare dal nulla e, senza svelare il mistero di una così lunga assenza, riprende il comando della famiglia. Per riannodare il rapporto con i figli decide di portarli con sé in una gita apparentemente senza scopo su un’isola deserta e selvaggia. Dal viaggio però torneranno solamente in due.
Perfetto bilanciamento tra il semplice racconto familiare e la storia esemplare, Il ritorno, Leone d’oro al Festival di Venezia 2003, colpisce dritto al cuore e offre allo spettatore uno spettro verticale di letture, tutte ugualmente plausibili e significative. Che il padre non sia solamente un padre, per esempio, lo si capisce sin dalla prima apparizione in scena, modellata da Zvyagintsev sulla celebre composizione del Cristo Morto del Mantegna. Altri particolari però sembrano suggerire un’interpretazione biblica o comunque primordiale del film. La suddivisione del racconto nei 7 giorni della settimana, scanditi da apposite didascalie, richiama infatti il racconto della creazione dell’universo contenuto nel libro della Genesi mentre l’assoluta mancanza di riferimenti geografici o temporali fa pensare alla natura incontaminata dell’isola, la cui unica “contaminazione” è rappresentata da una torretta militare dismessa, come all’archetipo del luogo abbandonato dagli esseri umani: il giardino dell’Eden. Contribuisce poi a rafforzare la stessa visione l’atteggiamento polare dei figli: Andrey incarna il Fedele, colui cui per credere non occorre altro che l’immagine (icona) e la parola (verbo) del padre; Ivan invece è lo Scettico, colui cioè che deve trovare nella ragione il motivo per sottomettersi all’autorità paterna. Occorre sottolineare infine l’inscalfibile imperscrutabilità del genitore che proprio come un Dio impartisce ordini, detta regole e mette i figli alla prova senza mai fornire alcun tipo di spiegazione. Ma è un padre buono o cattivo quello che Andrey e Ivan si trovano improvvisamente in casa? Non si capisce. Zvyagintsev alimenta l’ambiguità del personaggio sino alla fine fornendo di tanto in tanto vaghi indizi che toccherà poi allo spettatore elaborare in un giudizio finale filtrato da numerose domande. Perché non si può parlare del suo passato? E’ stato in prigione? E lo scrigno che dissotterra nell’isola cosa contiene? Viste le dimensioni potrebbe contenere oro o denaro, forse il bottino di una rapina. E’ allora un bandito, un eroe negativo? E’ però plausibile che intenda utilizzare quel denaro per la famiglia. E’ perciò un eroe positivo?
Se quest’ultima, come sembra, fosse la prospettiva più corretta, Zvyagintsev ci costringerebbe allora a tornare indietro e a rivedere il film sotto una nuova luce, molto diversa invero dai colori freddi e metallici delle sequenze che precedono il viaggio verso l’isola. Il padre allora è solamente un uomo che sa di aver perduto 12 anni e di dover insegnare a vivere ora a figli già grandicelli. Decide così di portarli con sé in un viaggio iniziatico disseminato come nelle favole di contrattempi, imprevisti ed ostacoli di ogni genere. Per questo allora quando Andrey e Ivan vengono rapinati, il padre non interviene limitandosi a scrutare il comportamento dei figli da dietro una finestra. Per questo sotto la tempesta li fa remare fino allo sfinimento. Per questo talvolta li abbandona, lasciandoli soli e senza guida. Il suo è quindi il ruolo più ingrato: sottoporre i figli a prove così dure lo espone al risentimento dei bambini e a un travaglio interiore che non ha speranza di vedere i frutti della propria fatica. In ossequio alle teorie freudiane infatti la trasformazione del bambino in adulto non può che passare dall’estremo sacrificio del padre. Solo dopo la tragica fatalità della sua morte infatti Ivan riuscirà a chiamare il padre “papà” e Andrey a trovare il modo di trasportarne il corpo immensamente pesante fino alla riva e infine a guidare l’auto per tutta la strada del ritorno. Il ritorno, proprio a questa parola ci ha infine condotto la lunga teoria di enigmi incastonati da Zvyagintsev nel film, sicuramente uno dei più belli, commoventi e intelligenti degli ultimi anni. Parecchio rimarrebbe da dire, per esempio sull’uso della profondità di campo, sulle triangolazioni interne all’inquadratura e sui continui salti di fuoco tra primo piano e sfondo ma aggiungere altro servirebbe solo a svelare troppo di un film che nello scrigno del non-detto custodisce la chiave del proprio fascino e del proprio mistero.

recensione di Alessandro Montanari