19 luglio 2008

MILLION DOLLAR BABY


Regia: Clint Eastwood.
Con: Clint Eastwood, Hilary Swank, Morgan Freeman, Jay Baruchel.
Produzione: Malpaso Productions, Albert S. Ruddy Productions, Lakeshore Entertainment.
Distribuzione: 01 Distribution.
Anno: 2004.
Durata: 137’.

Tradito dal suo pugile più promettente, sottrattogli alla soglia della definitiva consacrazione da un manager losco e profittatore, il vecchio Frankie sta forse per gettare la spugna quando l’ostinata determinazione di una sconosciuta, che da qualche tempo ha preso a seguirlo come un cagnolino in cerca di padrone, lo convince a intraprendere una nuova scommessa sportiva: allenare una donna, già 31enne e per giunta a digiuno delle più elementari nozioni tecniche, per portarla fino alla conquista del titolo mondiale. L’impresa sembra impossibile ma sul ring Maggie dà prova di qualità eccezionali: tenacia, umiltà, coraggio, spirito di sacrificio e intelligenza. Meno cauto che in passato e animato dal desiderio di dare ai sacrifici dell’allieva l’opportunità di una meritata ricompensa, Frankie le organizza l’incontro della vita. A un passo dal trionfo però una grave scorrettezza dell’avversaria mette Maggie knock-out, inchiodandola per sempre a un letto d’ospedale. Paralizzata dalla testa in giù e abbandonata dalla stessa famiglia che con le sue vittorie aveva tentato di risollevare, alla ragazza non resta che il ruvido affetto dell’allenatore. E proprio per Maggie, Frankie compirà il più paterno, penoso e misericordioso degli atti d’amore.
Se, come sosteneva Truffaut, i film sono treni che attraversano la notte, Million Dollar Baby è allora un convoglio solido ma non troppo moderno che porta lo spettatore a destinazione puntuale e senza scossoni. Merito della guida esperta del capotreno che, salito tante e tante volte sulla vecchia locomotiva dei Lumiere, dell’ingranaggio cinematografico è arrivato a conoscere ogni minuscolo componente. Million Dollar Baby dunque funziona per le stesse banali ragioni che da sempre fanno di un film un buon film: perchè racconta una bella storia, perchè la racconta bene, perché gli interpreti vivono nei personaggi. E sono proprio gli attori, a nostro giudizio, a reggere le sorti della pellicola valorizzando anche oltre i limiti della sceneggiatura le suggestioni metafisiche di una strana parabola teologica che ricostruisce l’enigma della trinità che tanto tormenta Frankie intorno all’incrinato distacco di un allenatore che torna ad essere Padre, alla devozione incrollabile di una Figlia che va incontro al proprio destino sacrificale e alla sobria saggezza di un ex pugile mezzo cieco che come lo Spirito Santo tutto vede e tutto comprende. Eastwood, Freeman e la Swank sono tre talenti purissimi che filtrano l’ispirazione attraverso metodi assai diversi: lavorando sulla connotazione del silenzio il primo, sulle suggestioni della parola il secondo e sulla fisicità istintiva e animalesca la terza. L’incontro e la fusione di approcci tanto eterogenei fa di Million Dollar Baby un memorabile saggio di arte drammatica. Quanto al lavoro di messa in scena invece Eastwood continua a perseguire quell’idea essenziale di cinema maturata nel corso di una carriera straordinariamente lunga, fortunata e costellata di grandi incontri artistici. L’impressione però è che da Mystic River in poi l’attitudine risoluta, piana e lineare del regista venga erroneamente interpretata dalla critica come un’indefinita forma di classicismo che il cinema non ha mai effettivamente vissuto, visto e considerato che i grandi pionieri (solo a posteriori i classici) hanno sempre pensato a elaborare forme espressive innovative e personali più che a replicare o consolidare modelli già acquisiti. L’indubbia confidenza del regista col mezzo non dovrebbe quindi nascondere il rischio cui un tale cinema è soggetto: quello di lasciare scadere la semplicità in semplificazione e l’essenzialità stilistica in povertà lessicale. Alludiamo alla disinvoltura di certe svolte narrative che come già in Mystic River liquidano il tema emotivamente più forte del film (qui l’eutanasia, in Mystic River l’abuso sessuale) finendo per trascurarne innumerevoli risvolti. Ulteriori dubbi suscita poi la stilizzazione manichea dei personaggi che mentre assegna a Maggie i connotati sublimi dell’angelo o dell’agnello sacrificale, vernicia di un’indifferenza odiosa e grottesca la sua deforme famiglia e intride di una malvagità altrettanto irredimibile la sua terribile avversaria. Troppo oscuro e sostanzialmente irrisolto pare infine anche il tormentoso passato di Frankie di cui è avara rivelatrice persino l’onnisciente voce-guida di Eddie che, considerata l’umile provenienza, stupisce sia per proprietà che per profondità di linguaggio. Potere dello Spirito Santo che tutto pervade e in tutto (e tutti) si manifesta.

recensione di Alessandro Montanari

26 febbraio 2008

LA STANZA DEL FIGLIO


Regia: Nanni Moretti.
Con: Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio
Orlando.
Distribuzione: Sacher Distribuzione.
Produzione: Sacher Film Srl, BAC Films, Canal+.
Anno: 2000.
Durata: 99’.

La stanza del figlio è il film che non volete vedere. La paura del dolore, di un
dolore così grande ed incomprensibile come la perdita di un figlio, allontana
quasi a-priori lo spettatore. Eppure c’è qualcosa di profondamente terapeutico
in questo film tragico e sommesso che sembra la pagina nascosta di un diario
privatissimo e questo qualcosa è inevitabilmente legato al tortuoso tragitto che
gli psicologi definiscono “elaborazione del lutto”. L’unità della famiglia, la
dolce complicità tra moglie e marito e tra genitori e figli d’improvviso vengono
come immobilizzate dal gelido arrivo della morte che trasforma il focolare
domestico in una sorta di presepe ghiacciato. Davanti alla morte si è
desolatamente soli sembra dire Moretti, la sofferenza interiore non riconosce
simili al di fuori di se stessa. Qualcuno ha parlato de La stanza del figlio
come di un’opera sul dolore che divide e il giudizio ci sembra senz’altro
condivisibile. E’ come se ognuno perdesse qualcosa di diverso, come se ognuno,
più od oltre che perdere il figlio o fratello Andrea, perdesse l’immagine, la
propria personale raffigurazione di Andrea. Il ragionamento, forse complesso ma plausibile, trova conferma in un piccolo excursus giallo che precede la
disgrazia. Padre, madre e sorella tentano di capire se sia davvero stato Andrea
il responsabile del furto di un fossile (ancora l’idea dell’immobilità che
ritorna) avvenuto a scuola. Nel susseguirsi di ipotesi su questo fatto
apparentemente non utile ai fini del racconto ciascuno ragiona in base alla
propria idea del ragazzo ed è esattamente di quell’Andrea-riflesso da se stessi
che ognuno si sente orfano. La stanza del figlio, tuttavia, si guarda e si
riceve con il cuore e con un’emozione sempre soffocata che poco spazio concede
alla freddezza dell’analisi psicologica. Impossibile spiegare ciò che
spiegazione non ha. Ed è proprio il padre-psicologo interpretato da Moretti,
infatti, il primo ad alzare mestamente bandiera bianca. Il tornare
ossessivamente sulle circostanze infinitesime che avrebbero potuto evitare la
morte del figlio agisce sulla sua mente come un cancro silenzioso. Il suo dolore
è talmente assorbente ed esclusivo da soffocare quasi la capacità di ricordare,
l’unica cosa, a ben vedere, di cui la morte non riesce a privarci. A mostrare
allo psicologo l’uscita dall’oscuro labirinto sarà una lettera spedita troppo
tardi ad Andrea da una giovane dagli occhi limpidi di nome Arianna. Il filo di
Arianna conduce la famiglia dalle acque dell’Adriatico, quelle della tragedia,
al mare che unisce, e divide, Italia e Francia. Su una spiaggia deserta in cui
disordinatamente vagano madre, padre e figlia ricomincia faticosamente la vita.
Il tempo stabilirà se La stanza del figlio sia il capolavoro del Moretti-regista,
noi ci accontentiamo di credere che sia il film più importante del Moretti-uomo.

recensione di Alessandro Montanari