28 novembre 2005

Come due pattinatori sul ghiaccio (Casomai, 2002)


Due giovani professionisti, Tommaso e Stefania, si conoscono, si innamorano e decidono di sposarsi. Mi sembra di non avere mai smesso di vedere “L’ultimo bacio” di Gabriele Muccino; e questo è il secondo tempo. E allora ancora due ore di crisi esistenziali dei soliti trentenni che non riescono ad assumersi le proprie responsabilità. Ma questo è “Casomai” di Alessandro D’Alatri; e il regista di “Americano rosso” e “Senza pelle” riesce a dare un taglio originale ad un tema ormai stra-abusato. Il film risulta brillante e ironico, mai noioso, anche grazie al contributo di una Stefania Rocca (“Nirvana”, “Viol@”) in continua crescita dal punto di vista professionale, sempre in grado di stupire, e di un inedito Fabio Volo (ex iena), che anche grazie alla sua inesperienza rende il personaggio di Tommaso con gran naturalezza, requisito essenziale per una storia che ha la pretesa di rappresentare la nostra quotidianità. Il fragile soggetto delle insicurezze generazionali si arricchisce di problematiche più concrete, che ognuno oggi si trova a dover affrontare, e non lascia che un tradimento monopolizzi l’intera pellicola. La città di Milano si fa icona di una società sempre più giovane e sempre più in movimento, alla ricerca dell’affermazione professionale e sociale, irrequieta e sempre meno disposta a fermarsi in un porto sicuro. Questi uomini del duemila rendono la parola “casomai” simbolo della possibilità di mutare ogni cosa, e due pattinatori sul ghiaccio diventano la metafora perfetta di una nuova precarietà. Ecco il ritratto di quello che siamo, la storia da raccontare, dove tutti siamo colpevoli. Ma una volta sicuri di quello che il regista ha voluto comunicarci, e ormai rassegnati ad un finale già visto, ecco che D’Alatri con grande abilità rovescia la situazione e ci dimostra come, in un presente in cui è diventato così importante essere accettati da tutti, siano ancora importanti l’individuo e il suo libero arbitrio; e ci regala un finale aperto, senza la pretesa di conoscere la cura a tutti i nostri mali, ma con l’augurio che ognuno possa essere padrone delle proprie scelte. Ad un cast giovane unisce un uso innovativo della macchina da presa, inusuale per un film di questo genere, e una colonna sonora (scritta e cantata dalla friulana Elisa) che ben interpreta il proposito di freschezza della pellicola nel suo complesso.

17 novembre 2005

Il genere horror (II): il linguaggio.


Nel suo saggio Storia e Discorso, Seymour Chatman divide ogni forma narrativa in Storia (il materiale oggetto della narrazione) e Discorso ( la forma narrativa attraverso cui si sceglie di comunicare). Rimandando a più avanti le riflessioni sulla Storia, vorrei soffermarmi brevemente su quegli aspetti cinematografici più tecnici, che caratterizzano lo stile ed il linguaggio del genere horror, quegli elementi, cioè, propri del Discorso.
Nel linguaggio cinematografico l’uso della macchina da presa ed il montaggio delineano la grammatica e la sintassi dello stile di un genere (nel nostro caso l’horror), come fanno in letteratura l’uso delle parole e la costruzione dei periodi. Il genere horror è uno di quelli più aperti alle sperimentazioni e innovazioni, e quindi, come dice anche Canova, sarà impossibile tracciare delle regole fisse e rigide; ci limiteremo a mettere in evidenza gli elementi più ricorrenti.
Iniziamo con un insistente uso della mdp in movimento: il movimento e l’instabilità dell’inquadratura generano smarrimento e angoscia nello spettatore, che non ha più una visione d’insieme chiara e precisa; si pensi al piccolo Danny che gira in treciclo per i corridoi del gigantesco Overlook Hotel in Shining: lo smarrimento cresce ad ogni pedalata, ed il pubblico si chiede sempre più insistentemente chi ci sarà ad aspettare il povero Danny dietro il prossimo angolo.
Un caso particolarmente angosciante di movimento di macchina, che ricorre spesso nel genere horror, è la soggettiva dell’assassino che segue la sua vittima: movimenti sinuosi della mdp (spesso ottenuti con una steadicam) ci segnalano subito che il nostro punto di vista è quello di una persona; poi sarà la situazione ad avvertirci che si tratta dell’assassino o del mostro; ad esempio, potremmo vedere il personaggio positivo che si guarda intorno come se fosse seguito da qualcuno, e la mdp che rimane ad una certa distanza, mostrando di nascondersi dietro ad alcuni oggetti. Questa particolare ripresa genera nel pubblico una forte suspance, ingrediente essenziale per il cinema horror; un buon esempio è il caso limite de L’uomo senza ombra (Hollow Man, di Paul Verhoeven, 2000), in cui un Kevin Bacon invisibile segue senza essere visto le sue vittime: la mdp in movimento si avvicina molto agli attori, che fingono di non accorgersi di essere seguiti, aumentando così l’inquietudine dello spettatore.
I registi di film horror alternano, attraverso il montaggio, scene come questa, che generano suspance, a forti colpi si scena, che colpiscono l’attenzione dello spettatore attraverso la sorpresa, come, ad esempio, la classica scena dell’assassino che colpisce all’improvviso, sbucando dall’ombra, in un momento in cui la tensione è azzerata dal contesto non minaccioso. Si tratta di scelte stilistiche che mantengono costante l’attenzione, ma anche l’angoscia del pubblico.
È doverosa a questo punto una distinzione tra i termini “suspance” e “sorpresa”: parliamo di suspance quando il regista sceglie di dare allo spettatore degli indizi che lo rendano partecipe, o quantomeno gli permettano di immaginare, quanto sta per accadere alla vittima, che, invece, è all’oscuro di tutto; la sorpresa, all’opposto, scuote di colpo l’attenzione del pubblico, insieme a quella dei personaggi, che non si aspettano ciò che sta per accadere.
Tutto questo, dicevamo, attraverso il montaggio: un montaggio invasivo e serrato è spesso un elemento centrale di un film horror; si alternano velocemente primi piani a campi lunghissimi, inquadrature anomale e inquietanti (di derivazione espressionista) a fuori campo altrettanto minacciosi, che mantengono il ritmo incalzante. * (segue...)
*tratto da Alvise Barbaro, Frankenstein: dall'horror alla parodia, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, 2004.

08 novembre 2005

Il genere horror (I): riqualifichiamo un genere ingiustamente relegato in serie B


Innanzi tutto bisogna sfatare la diffusa convinzione che l’horror sia un genere di serie B. è facile osservare come ognuno di noi abbia il bisogno inconscio di confrontarsi con le proprie paure e come la rappresentazione di esse sia una consuetudine nel campo artistico. L’elemento inquietante è sempre stato presente nella storia del cinema sin dai suoi esordi e molti tra i più grandi maestri della settima arte hanno voluto cimentarvisi. È un cinema in continuo mutamento, sempre aperto alla sperimentazione e all’innovazione, in grado di confrontarsi ogni volta con strumenti diversi e attraverso diversi linguaggi; si avvale di uno stile raffinato, di numerosi simbolismi e, come ci spiega Gianni Canova, <<[…] non c’è altro genere nella storia del cinema così bisognoso, per essere colto appieno, di una grande conoscenza sentimentale interiorizzata, metabolizzata dallo spettatore.>>. Inoltre l’horror chiede uno sforzo maggiore al cineasta, in quanto non deve solo mostrare allo spettatore, ma deve provocare in lui una reazione forte, rendendo più stretta l’interazione col film; citando ancora Canova, possiamo definirlo il “cinema dello shock visivo”, distinto da tutti gli altri generi proprio per questa ricerca della reazione dello spettatore (che forse si può riconoscere anche nel cinema comico e in quello porno), dove l’occhio assume una valenza ancora più importante, in quanto veicolo di questo shock. La provocazione, l’oltraggio visivo, sono sempre sottolineati dal genere attraverso la ricorrente tematica dell’occhio, da Un chien andalou (id., 1929, Luis Bunuel) in poi, passando da L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960, Michael Powell). Saper modellare la materia orrorifica nel cinema significa avere una profonda conoscenza e padronanza del cinema stesso; per questo, come dicevamo, i più grandi maestri hanno voluto cimentarvisi: tra gli ultimi, Francio Ford Coppola e Kenneth Branagh, dopo cento anni di cinema, hanno resuscitato due classici del genere: Dracula e Frankenstein.* (segue...)
*tratto da: Alvise Barbaro, Frankenstein: dall'horror alla parodia, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, 2004.