18 settembre 2007

IL RITORNO


Regia: Andrey Zvyagintsev.
Con: Vladimir Garin, Ivan Dobronravov, Kostantin Lavronenko, Natlaya Vdovina, Galina Petrova.
Produzione: Ren Film.
Distribuzione: Lucky Red.
Anno: 2003.
Durata: 105’.

Cresciuti con la madre e la nonna, Andrej e Ivan non vedono il padre da 12 anni. Di lui in casa è proibito parlare e persino la sua immagine è ridotta allo stazzonato ricordo di una vecchia fotografia familiare custodita dai due bambini come un tesoro segreto. Un giorno però il padre ricompare dal nulla e, senza svelare il mistero di una così lunga assenza, riprende il comando della famiglia. Per riannodare il rapporto con i figli decide di portarli con sé in una gita apparentemente senza scopo su un’isola deserta e selvaggia. Dal viaggio però torneranno solamente in due.
Perfetto bilanciamento tra il semplice racconto familiare e la storia esemplare, Il ritorno, Leone d’oro al Festival di Venezia 2003, colpisce dritto al cuore e offre allo spettatore uno spettro verticale di letture, tutte ugualmente plausibili e significative. Che il padre non sia solamente un padre, per esempio, lo si capisce sin dalla prima apparizione in scena, modellata da Zvyagintsev sulla celebre composizione del Cristo Morto del Mantegna. Altri particolari però sembrano suggerire un’interpretazione biblica o comunque primordiale del film. La suddivisione del racconto nei 7 giorni della settimana, scanditi da apposite didascalie, richiama infatti il racconto della creazione dell’universo contenuto nel libro della Genesi mentre l’assoluta mancanza di riferimenti geografici o temporali fa pensare alla natura incontaminata dell’isola, la cui unica “contaminazione” è rappresentata da una torretta militare dismessa, come all’archetipo del luogo abbandonato dagli esseri umani: il giardino dell’Eden. Contribuisce poi a rafforzare la stessa visione l’atteggiamento polare dei figli: Andrey incarna il Fedele, colui cui per credere non occorre altro che l’immagine (icona) e la parola (verbo) del padre; Ivan invece è lo Scettico, colui cioè che deve trovare nella ragione il motivo per sottomettersi all’autorità paterna. Occorre sottolineare infine l’inscalfibile imperscrutabilità del genitore che proprio come un Dio impartisce ordini, detta regole e mette i figli alla prova senza mai fornire alcun tipo di spiegazione. Ma è un padre buono o cattivo quello che Andrey e Ivan si trovano improvvisamente in casa? Non si capisce. Zvyagintsev alimenta l’ambiguità del personaggio sino alla fine fornendo di tanto in tanto vaghi indizi che toccherà poi allo spettatore elaborare in un giudizio finale filtrato da numerose domande. Perché non si può parlare del suo passato? E’ stato in prigione? E lo scrigno che dissotterra nell’isola cosa contiene? Viste le dimensioni potrebbe contenere oro o denaro, forse il bottino di una rapina. E’ allora un bandito, un eroe negativo? E’ però plausibile che intenda utilizzare quel denaro per la famiglia. E’ perciò un eroe positivo?
Se quest’ultima, come sembra, fosse la prospettiva più corretta, Zvyagintsev ci costringerebbe allora a tornare indietro e a rivedere il film sotto una nuova luce, molto diversa invero dai colori freddi e metallici delle sequenze che precedono il viaggio verso l’isola. Il padre allora è solamente un uomo che sa di aver perduto 12 anni e di dover insegnare a vivere ora a figli già grandicelli. Decide così di portarli con sé in un viaggio iniziatico disseminato come nelle favole di contrattempi, imprevisti ed ostacoli di ogni genere. Per questo allora quando Andrey e Ivan vengono rapinati, il padre non interviene limitandosi a scrutare il comportamento dei figli da dietro una finestra. Per questo sotto la tempesta li fa remare fino allo sfinimento. Per questo talvolta li abbandona, lasciandoli soli e senza guida. Il suo è quindi il ruolo più ingrato: sottoporre i figli a prove così dure lo espone al risentimento dei bambini e a un travaglio interiore che non ha speranza di vedere i frutti della propria fatica. In ossequio alle teorie freudiane infatti la trasformazione del bambino in adulto non può che passare dall’estremo sacrificio del padre. Solo dopo la tragica fatalità della sua morte infatti Ivan riuscirà a chiamare il padre “papà” e Andrey a trovare il modo di trasportarne il corpo immensamente pesante fino alla riva e infine a guidare l’auto per tutta la strada del ritorno. Il ritorno, proprio a questa parola ci ha infine condotto la lunga teoria di enigmi incastonati da Zvyagintsev nel film, sicuramente uno dei più belli, commoventi e intelligenti degli ultimi anni. Parecchio rimarrebbe da dire, per esempio sull’uso della profondità di campo, sulle triangolazioni interne all’inquadratura e sui continui salti di fuoco tra primo piano e sfondo ma aggiungere altro servirebbe solo a svelare troppo di un film che nello scrigno del non-detto custodisce la chiave del proprio fascino e del proprio mistero.

recensione di Alessandro Montanari

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