07 luglio 2006

GANGS OF NEW YORK

Regia: Martin Scorsese.
Con: Daniel Day-Lewis, Leonardo Di Caprio, Cameron Diaz, Liam Neeson, Hanry
Thomas, John C. Reilly, Jim Broadbent.
Produzione: Miramax.
Distribuzione: 20th Century Fox.
Anno: 2002.
Durata: 168’.

Ineguagliabile indagatore della vita di strada e dei codici comportamentali delle sub-culture urbane, Martin Scorsese è convinto da sempre che l’America, come recita il trailer che ha accompagnato l’uscita del suo film in Italia, sia nata nelle strade. Inevitabile perciò che le cronache di Herbert Ashbury sulle battaglie del 1860 per il controllo dei quartieri newyorchesi e sulle sommosse popolari contro la leva per la Guerra Civile finissero per accendere il suo delirante talento visivo, sempre più febbrile e crepuscolare. Ecco così Gangs of New York, genesi sanguinosa e vagamente shakespeariana dell’America di oggi.
Gangs of New York è un film dall’impatto violento e frontale, “un’opera al nero” che stordisce per la selvaggia rudezza di cui è intrisa e che tuttavia costringe a riflettere e ad interrogarsi se davvero si è intenzionati a districare, uno dopo l’altro, i numerosissimi fili che Scorsese avvolge sul proprio titanico rocchetto. Due di questi fili hanno nomi ed identità precise: si chiamano Amsterdam (Leonardo Di Caprio) e Bill Poe, meglio conosciuto come il Macellaio (Daniel Day-Lewis). Sono i capi delle bande degli Irlandesi e dei Nativi, orde tribali che si affrontano in scontri di epica ferocia da inserire però nel contesto generalizzato di una colossale lotta per la sopravvivenza che non contempla altro metodo all’infuori della più barbarica violenza. Scorsese non è conciliante, né assolutamente interessato a costruire parabole didascaliche od edificanti. Il suo marchio di fabbrica in senso filosofico e formale è, come si sa, l’iperbole. L’eccesso. Nella Genesi scorsesiana, in cui non mancano suggestioni di carattere biblico, a regnare è solo il Caos, un Caos primordiale. A Five Points, crocevia dove si ingarbugliano cinque strade, tutto si mescola in un magma incandescente di etnie e classi sociali, di sacro e profano, di pietà e vendetta, di ragione e assurdità, di norme scritte buone solo per i salotti e di legge del più forte consuetudinariamente applicata nelle strade. Bene e Male non esistono, o meglio, non esistono ancora. Sono in via di definizione e a stabilirne i confini sarà il vincitore, ovvero colui che sopravviverà alla mattanza finale descritta mirabilmente da Scorsese come il “Big Bang sociale” che darà origine all’America. Sembra infatti condivisibile, perlomeno a noi europei (meno evidentemente agli americani che non hanno amato il film), l’idea che Gangs of New York sia una specie di vetrino contenente i germi patogeni sviluppatisi nell’America attuale, un crogiolo di razze e di contraddizioni dove convivono il moralismo bigotto e la lascivia nichilista, l’individualismo spinto e la democrazia, il salutismo vegetariano e la pena di morte, il mito secondo cui anche il più svantaggiato può farsi strada e l’assistenza sanitaria negata ai non assicurati. L’America che ha in mente Scorsese, per sua formazione incline ad interpretare la vita secondo la cattolica accezione della “Valle di lacrime”, non è tuttavia né il Bene né il Male. E’ solo l’Ordine, l’ordine imperfetto che si è dato l’uomo per gestire il Caos pre-sociale. Figura esemplare in questo senso è il Macellaio, Mangiafuoco implacabile e volitivo ma in parte anche “giusto” e soprattutto organizzatore di un primo, seppur terroristico, modello di convivenza. Strabiliante la maestria interpretativa del redivivo Daniel Day-Lewis, capace di detonare ogni pulsione primitiva in due occhiacci ghignanti e perennemente ebbri di sangue, follia e animalesco istinto di sopravvivenza. Meno incisivi invece Di Caprio e soprattutto la Diaz, poco aiutata forse dall’unico personaggio debole di una sceneggiatura che aspira con discreto successo all’onnicomprensione dei romanzi dostoevskiani e tolstoiani. Come dicevamo Scorsese non è uomo conciliante e questa sua fermezza intellettuale si trasferisce intatta sullo schermo attraverso la grammatica spietata di una messa in scena che non arretra di fronte a nulla: dita che squartano, coltelli che smembrano, mazze che sfondano, folle che linciano e spettatori che plaudono all’impiccagione di 4 condannati estratti a sorte dall’urna dei miserrimi. E’ forse per via di questa crudele ed innocente poetica visiva che l’orrore opprimente accumulato in tutto il film si scioglie poi in un finale da brividi nel quale, sullo sfondo di due lapidi e su una terra resa fertile dal sangue di colpe ormai cancellate, sorge la ruvida New York simbolo dell’orgoglio (ferito) americano. E’ di Martin Scorsese, dopo il metafisico astrattismo del Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, la seconda cine-epopea d’autore sul genere umano. Sì, genere umano, perchè, vi piaccia o no, l’America, versione moderna della biblica Babilonia, è necessariamente “la parte per il tutto”.*
* recensione di Alessandro Montanari

1 commento:

Anonimo ha detto...

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