11 gennaio 2009

The dreamers


Regia: Bernardo Bertolucci.
Con: Michael Pitt, Louis Garrel, Eva Green, Robin Renucci, Anna Chancellor,
Florian Cadiou.
Produzione: Jeremy Thomas.
Distribuzione: Medusa.
Anno: 2003.
Durata: 130’.

Trent’anni dopo Ultimo tango a Parigi Bernardo Bertolucci torna a chiudersi con
la macchina da presa in un appartamento della capitale francese. All’interno
questa volta non ci mette una coppia ma un trio, unito dall’amore per il cinema
e dalla ricerca della libertà sessuale. Fuori dal rifugio invece si scatena la
contestazione sessantottina: prima davanti ai cancelli sbarrati della
Cinematheque Francaise e poi, sempre più ubiqua e dilagante, lungo i boulevard
dove studenti e operai affrontano la polizia a colpi di slogan e bottiglie
molotov. Saranno proprio i disordini di quei giorni infine, con un sasso che
molto provvidenzialmente si infrangerà contro la loro finestra, a liberare il
trio da una deriva privata, esclusiva ed assorbente quanto un sogno che diventa
ossessione.
Prima di qualunque considerazione specifica consentiteci una premessa generale.
The dreamers ci sembra la dimostrazione inconfutabile dell’immutata attualità
delle teorie sul “cinema d’autore” formulate ai tempi della Nouvelle Vague:
indipendentemente dalla materia trattata, sostenevano Truffaut e compagni, un
film è sempre e comunque figlio di un solo padre, il regista, che attraverso la
messa in scena trasmette all’opera il proprio patrimonio genetico. Il discorso
vale ovviamente per i soli grandi registi e spetta ai microscopi della critica
poi individuare i cromosomi da cui si sviluppa il loro lavoro. Riconosciuto a
Bertolucci lo status elitario di autore e accettando il rischio di suonare come
la voce stonata fuori dal coro, proviamo a spiegare il nostro pensiero. A
dispetto dei presupposti narrativi The dreamers rimane un film algido ed
estremo. A volte ostentatamente estremo. Lo sguardo cerebrale del regista riesce
infatti a raffreddare una materia magmatica in cui gioventù, amore, passione
erotica, cinefila e politica si cristallizzano in una statua certamente sinuosa
ed elegante, ma scolpita nel ghiaccio. Citazionista per vocazione e sovente per
sfoggio, Bertolucci si concede qualsiasi licenza. Satura il film di riferimenti
musicali e cinematografici “alti” e per farlo ricorre all’escamotage più banale
montando in parallelo le sequenze originali a quelle riattualizzate, con molta
saccenza e scarsa fantasia, dai suoi pallidi sognatori. Il risultato è un
imponente affresco barocco che come una modella troppo sicura del proprio
fascino si offre ammiccante agli scatti del fotografo ma che lo spettatore in
definitiva non sa in che prospettiva guardare. La vera lacuna di The dreamers
però sta a nostro avviso nella bassa temperatura emotiva del racconto
cinematografico che congela la comunicatività umana dei personaggi e che
tuttavia è cifra stilistica precipua della poetica del regista. Un esempio:
quando Bertolucci ruba fotogrammi a Chaplin, lo spettatore finisce per sentirsi
come uno scolaro davanti a un documentario. Se invece a fare un’operazione
simile è il Tornatore di Nuovo Cinema Paradiso lo spettatore è percorso da un
brivido. Questo perché la prima citazione tende all’erudizione, al didascalismo;
la seconda all’emozione.
Quanto al senso generale del film, l’impressione (confermata in certa misura
anche da quel pugno un po’ pateticamente alzato a beneficio dei fotografi
veneziani) è che Bertolucci intendesse operare uno scarto narrativo tra sfondo e
primo piano, privilegiando il tema politico a quello sentimentale o
cinematografico. Il triangolo amoroso, è vero, è il nucleo centrale della
pellicola ma i rapporti che legano Isabelle, Theo e Matthew appaiono a tratti
talmente artefatti e consacrati al lirismo dei dialoghi o delle situazioni da
rimanere a metà tra la forza della vita vissuta e l’incanto della vita sognata.
Tutt’altro che trascurabile poi l’ipocrisia con cui il regista ha cassato
l’attrazione omosessuale che evidentemente lega Theo a Matthew: per tenersi
buono il pubblico americano insomma l’uomo-col-pugno-alzato, oltre a lasciar
tagliuzzare al censore le scene di sesso, ha fatto anche un’altra piccola ma
significativa marcia indietro.
Ridotta la passione cinefila a un quiz nozionista e la passione amorosa a una
figura geometrica piana, Bertolucci infine resta in superficie anche nel
discorso politico. Stalin, Mao e Godard come icone benevole e illuminanti, padri
e madri come stolidi custodi della borghesia, poliziotti come cani da guardia,
studentelli implumi come infallibili depositari del bello e del vero. …Ma erano
tutti così ottusi e spocchiosi i giovani di allora? E la libertà, la libertà
dell’individuo, la libertà di denunciare i crimini e le ingiurie della dittatura
del proletariato, la libertà di non idolatrare Godard, la libertà dei veramente
liberi insomma non interessava a nessuno?
Se questo è l’oggetto sublime delle sue nostalgie, caro Maestro, allora si
rincuori, che di sognatori di tal fatta, purtroppo, è ancora pieno il mondo.

Recensione di Alessandro Montanari

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao anche noi ci occupiamo di cinema. A presto.

Anonimo ha detto...

mi sembra interessante. in bocca al lupo

persogiàdisuo ha detto...

La prima volta che lo vidi rimasi spiazzato. Anche perchè era il primo di Bertolucci che vedevo. Poi conoscendolo meglio, ho rintracciato i fili che lo collegavano alla sua filmografia precedente. In ogni caso mi sembra un po' troppo spinto

cembaloscrivano ha detto...

Un'estetica conturbante, una coralità composta da una triade giovane ma eccellente. Un film che non si lascia mai catturare, così come esso stesso non riesce a richiudere tutte le citazioni in esso presenti.