06 ottobre 2006

A SNAKE OF JUNE (Rokugatsu no Hebi)


Regia: Shinya Tsukamoto
Con: Asuka Kurosawa, Yuji Koutari, Shinya Tsukamoto, Tomolo Taguchi, Susume Terajima, Mansaku Fuwa, Teruko Hanahara.
Produzione: Shinya Tsukamoto
Distribuzione: Revolver
Anno: 2002
Durata: 74’

Una donna che lavora come operatrice telefonica in un centro di igiene mentale, un marito che rifugge i contatti sessuali per via di un’ossessione per l’igiene fisica e un altro uomo, un fotografo voyeur, che si insidia come un serpente tra i due coniugi dopo che la donna lo ha salvato dal suicidio.
E’ una vicenda oscura e terribilmente intricata quella che Shinya Tsukamoto pone al centro del suo ultimo film, a detta dello stesso regista “il più fortemente voluto e desiderato” della sua carriera. Tre persone, anzi tre personaggi, calati in una metropoli metallica, asettica e stordita dal ticchettio di un diluvio interminabile che annacqua il maestoso blu-notte col quale Tsukamoto ha voluto dipingere il bianco e nero originale della pellicola. A Snake of June si propone allo spettatore come un oggetto sfuggente, simbolico, sicuramente artistico. Avaro di chiavi di lettura e d’interpretazione, il film punta invece su un notevole bagaglio di sensazioni, suggestioni ed esplosioni visive. Tsukamoto in effetti organizza la trama in un vero e proprio labirinto narrativo che muta ripetutamente prospettiva caracollando dall’inizio alla fine sulla sottile linea di confine tra un realismo sofisticato e tutt’altro che lineare ed un onirismo lirico e surrealista. Lo spettatore è lasciato così senza punti cardinali, perennemente ignaro o incerto di dove si trovi: se in un sogno, in un luogo reale, in una fuga della mente, in un flasback o in un futuro o un al di là ugualmente imprecisati. Anche se per associazione di idee e un po’ come un paziente sul lettino dello psicanalista, Tsukamoto parla di dolore, colpa, incomunicabilità, libertà e repressione delle pulsioni scegliendo come collante tematico l’osservazione. Un’osservazione concentrata sul corpo, le cui forme ed espressioni spiegano e raccontano l’essere assai più che i dialoghi, spesso volutamente scarni e insignificanti. C’è un marito che non tocca e nemmeno guarda più la giovane moglie e un voyeur che fotografandola di nascosto nei suoi momenti di intimo abbandono la costringe, ricattandola, ad intraprendere un gioco perverso che ha il solo scopo di liberare voglie represse. “Fai quello che vuoi veramente” le intima il fotografo prima di scoprire negli ingrandimenti dei suoi scatti, esattamente come in Blow-up di Antonioni, un elemento fino a quel momento invisibile semplicemente perché non visto. Nelle forme irregolari del seno di Rinko il fotografo intuisce l’embrione dello stesso male, un tumore, che sta devastando anche le sue carni. Lo sguardo erotico del voyeur si trasforma allora nello sguardo clinico del medico. Nel tentativo di restituirle la vita che lei stessa gli aveva salvato, il fotografo costringe Rinko a farsi visitare. Per guarirla basterebbe un’operazione, la diagnosi è precoce, ma il marito impedisce che il seno della moglie venga mutilato. Mentre Rinko si abbandona al volere del marito, il fotografo comincia a perseguitarlo trascinando se stesso e i due coniugi in una spirale di violenza che paradossalmente condurrà ciascuno all’espiazione delle proprie colpe in una sorta di redenzione attraverso il peccato.
A snake of june, come già detto, non è un film di facile visione. Se però lo spettatore alla fine resiste alla tentazione di lasciarlo scappare verso le sue stesse peregrinazioni è certamente per il fascino estetico della messa in scena, straordinariamente ricca di primi piani, dettagli, ombre e simboli misteriosi. Lo sguardo di Tsukamoto trascende la materia narrata, la oltrepassa per ragionare sulla forma come quando Rinko riceve il primo pacco di fotografie. Gli scatti la ritraggono, istante per istante, nel compiersi di un movimento esplicitamente sensuale o viceversa erotizzato dall’intromissione della macchina fotografica. Rinko fa scorrere le fotografie una sull’altra e il movimento sembra compiersi, i fotogrammi scorrere e il cinema …compiersi. E così succede che ci si ricordi d’improvviso che il cinema non è altro che un’illusione ottica in grado di imitare la vita grazie all’accostamento di 24 fotografie in un secondo.*

* Recensione di Alessandro Montanari