27 luglio 2006

LE CONSEGUENZE DELL’AMORE


Regia: Paolo Sorrentino.
Con: Tony Servillo, Olivia Magnani, Raffaele Pisu, Adriano Giannini, Angela
Goodwin.
Produzione: Domenico Procacci, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Angelo Curti.
Distribuzione: Medusa.
Durata: 100’.
Anno: 2004.

La solita camera d’albergo, il dopo-cena chino su un tavolo da poker tristissimo e truccato, una dose di eroina assunta per invariabile abitudine il mercoledì mattina di ogni settimana e una valigia da far scivolare nel ventre ingordo di una discreta banca svizzera. La vita di Titta Di Girolamo, tetro commercialista di mezz’età finito chissaccome a ripulire soldi per Cosa Nostra, scorre come soluzione fisiologica in una flebo: goccia a goccia, regolare, senza emozioni né sussulti. Tra una sigaretta e l’altra, dietro i vetri della grande e pulitssima hall, Titta osserva il movimento di un mondo per cui prova sempre minore interesse. L’indifferenza è il biglietto da visita che dispensa a chiunque osi oltrepassare il confine impalpabile di quel reciproco ignorarsi che i sociologi definiscono con buona resa “disattenzione civile”. Tuttavia, anche se il futuro sembra già scritto e segnato, qualcosa nella vita di Titta deve ancora accadere grazie alla candida ostinazione di una giovane cameriera. Ma le conseguenze dell’amore purtroppo non saranno trascurabili.
Dopo il promettente esordio de L’uomo in più (2001), con Le conseguenze dell’amore Paolo Sorrentino conferma di possedere eccellenti doti affabulatorie abbinate ad una spiccata propensione per il mezzo cinematografico. Nato e cresciuto come sceneggiatore, il regista napoletano costruisce nella pagina scritta le migliori premesse per il successivo lavoro di messinscena che a quel punto potrebbe anche limitare ad un mero esercizio illustrativo. L’architettura narrativa de Le conseguenze dell’amore infatti racchiude un raffinatissimo
congegno ad orologeria perfettamente tarato, nell’uso calibrato di ellissi, rimandi, ribaltamenti di prospettiva e rivelazioni, sui tempi inconsci della curiosità dello spettatore. Capita di rado che una sceneggiatura di tale valore tecnico non si accompagni a direzioni e interpretazioni dello stesso tenore. La regola, non scritta e indimostrabile, sottende un circolo virtuoso che solo la
mano demiurgica dello sceneggiatore è in grado di innescare: un grande copione stimola performance memorabili, e a volte anche irripetibili (notizie del Brian Singer de I soliti sospetti?), sia davanti che dietro la macchina da presa. Sotto lo sguardo fluido e sempre mobile di Sorrentino, Tony Servillo descrive con tratti misurati ed essenziali il cupo isolamento di “un uomo all’ancora”, improvvisamente risucchiato infine nel vortice delle stesse emozioni cui aveva consapevolmente abdicato. Di formazione eminentemente teatrale, Servillo trasferisce nei lunghi silenzi di Titta una miscela esplosiva di metodo e istinto che ricorda lo stile violento e fragile del grande Gian Maria Volontè. E’ il palco, con il suo corollario di prove, confronto diretto col pubblico, prestazioni lunghe e senza interruzioni, a mettere nella valigia dell’attore quella comprensione profonda del personaggio per cui si potrebbe risultare un Cyrano del tutto credibile anche senza l’immancabile nasone posticcio. Titta è un uomo che ha rinunciato alle parole, e con esse alla vita, e nello sguardo ha uno scudo invulnerabile. L’abilità di Servillo sta nel crepare a poco a poco la maschera ch’egli stesso ha pazientemente modellato servendosi di esitazioni, contrazioni e tremori più che di veri e propri gesti. Dopo aver scolpito nel ghiaccio il proprio David-desolato, Servillo ha poi la forza di scioglierlo lentamente sul fuoco della ritrovata emozione, sollevandolo per un attimo dal tormento perpetuo dell’immobilità cui Titta, anche nella morte, sembra condannato dal Fato. Tra i tanti meriti di Sorrentino annotiamo anche l’uso efficace e fascinoso della voce-off. Tra i pochi ad aver metabolizzato la lezione truffautiana, Sorrentino ha dato al pensiero amplificato di Titta parole e considerazioni che legittimano ampiamente l’interruzione del naturale fluire della narrazione. Lo ammettiamo: presi dall’entusiasmo del talent-scout stiamo forse esagerando ma è da L’uomo in più che ci tenevamo l’urlo in gola. Perchè Sorrentino ha quella qualità difficilmente descrivibile che, per stare allo sport celebrato nel suo film d’esordio, fa dire di un calciatore che “vede la porta”. E’ una cosa che non si insegna, un sesto senso: un seme che cade solo in pochi terreni. E che in ancor meno germoglia.*
* Recensione di Alessandro Montanari

07 luglio 2006

GANGS OF NEW YORK

Regia: Martin Scorsese.
Con: Daniel Day-Lewis, Leonardo Di Caprio, Cameron Diaz, Liam Neeson, Hanry
Thomas, John C. Reilly, Jim Broadbent.
Produzione: Miramax.
Distribuzione: 20th Century Fox.
Anno: 2002.
Durata: 168’.

Ineguagliabile indagatore della vita di strada e dei codici comportamentali delle sub-culture urbane, Martin Scorsese è convinto da sempre che l’America, come recita il trailer che ha accompagnato l’uscita del suo film in Italia, sia nata nelle strade. Inevitabile perciò che le cronache di Herbert Ashbury sulle battaglie del 1860 per il controllo dei quartieri newyorchesi e sulle sommosse popolari contro la leva per la Guerra Civile finissero per accendere il suo delirante talento visivo, sempre più febbrile e crepuscolare. Ecco così Gangs of New York, genesi sanguinosa e vagamente shakespeariana dell’America di oggi.
Gangs of New York è un film dall’impatto violento e frontale, “un’opera al nero” che stordisce per la selvaggia rudezza di cui è intrisa e che tuttavia costringe a riflettere e ad interrogarsi se davvero si è intenzionati a districare, uno dopo l’altro, i numerosissimi fili che Scorsese avvolge sul proprio titanico rocchetto. Due di questi fili hanno nomi ed identità precise: si chiamano Amsterdam (Leonardo Di Caprio) e Bill Poe, meglio conosciuto come il Macellaio (Daniel Day-Lewis). Sono i capi delle bande degli Irlandesi e dei Nativi, orde tribali che si affrontano in scontri di epica ferocia da inserire però nel contesto generalizzato di una colossale lotta per la sopravvivenza che non contempla altro metodo all’infuori della più barbarica violenza. Scorsese non è conciliante, né assolutamente interessato a costruire parabole didascaliche od edificanti. Il suo marchio di fabbrica in senso filosofico e formale è, come si sa, l’iperbole. L’eccesso. Nella Genesi scorsesiana, in cui non mancano suggestioni di carattere biblico, a regnare è solo il Caos, un Caos primordiale. A Five Points, crocevia dove si ingarbugliano cinque strade, tutto si mescola in un magma incandescente di etnie e classi sociali, di sacro e profano, di pietà e vendetta, di ragione e assurdità, di norme scritte buone solo per i salotti e di legge del più forte consuetudinariamente applicata nelle strade. Bene e Male non esistono, o meglio, non esistono ancora. Sono in via di definizione e a stabilirne i confini sarà il vincitore, ovvero colui che sopravviverà alla mattanza finale descritta mirabilmente da Scorsese come il “Big Bang sociale” che darà origine all’America. Sembra infatti condivisibile, perlomeno a noi europei (meno evidentemente agli americani che non hanno amato il film), l’idea che Gangs of New York sia una specie di vetrino contenente i germi patogeni sviluppatisi nell’America attuale, un crogiolo di razze e di contraddizioni dove convivono il moralismo bigotto e la lascivia nichilista, l’individualismo spinto e la democrazia, il salutismo vegetariano e la pena di morte, il mito secondo cui anche il più svantaggiato può farsi strada e l’assistenza sanitaria negata ai non assicurati. L’America che ha in mente Scorsese, per sua formazione incline ad interpretare la vita secondo la cattolica accezione della “Valle di lacrime”, non è tuttavia né il Bene né il Male. E’ solo l’Ordine, l’ordine imperfetto che si è dato l’uomo per gestire il Caos pre-sociale. Figura esemplare in questo senso è il Macellaio, Mangiafuoco implacabile e volitivo ma in parte anche “giusto” e soprattutto organizzatore di un primo, seppur terroristico, modello di convivenza. Strabiliante la maestria interpretativa del redivivo Daniel Day-Lewis, capace di detonare ogni pulsione primitiva in due occhiacci ghignanti e perennemente ebbri di sangue, follia e animalesco istinto di sopravvivenza. Meno incisivi invece Di Caprio e soprattutto la Diaz, poco aiutata forse dall’unico personaggio debole di una sceneggiatura che aspira con discreto successo all’onnicomprensione dei romanzi dostoevskiani e tolstoiani. Come dicevamo Scorsese non è uomo conciliante e questa sua fermezza intellettuale si trasferisce intatta sullo schermo attraverso la grammatica spietata di una messa in scena che non arretra di fronte a nulla: dita che squartano, coltelli che smembrano, mazze che sfondano, folle che linciano e spettatori che plaudono all’impiccagione di 4 condannati estratti a sorte dall’urna dei miserrimi. E’ forse per via di questa crudele ed innocente poetica visiva che l’orrore opprimente accumulato in tutto il film si scioglie poi in un finale da brividi nel quale, sullo sfondo di due lapidi e su una terra resa fertile dal sangue di colpe ormai cancellate, sorge la ruvida New York simbolo dell’orgoglio (ferito) americano. E’ di Martin Scorsese, dopo il metafisico astrattismo del Kubrick di 2001: Odissea nello spazio, la seconda cine-epopea d’autore sul genere umano. Sì, genere umano, perchè, vi piaccia o no, l’America, versione moderna della biblica Babilonia, è necessariamente “la parte per il tutto”.*
* recensione di Alessandro Montanari